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Il successo? No, un destino profondo

Le lettere che scriveva la scrittrice Goliarda Sapienza.

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Miryam Scandola
giu 28, 2024
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Goliarda Sapienza è nata nel 1924 ed è stata una scrittrice e un’attrice. Il suo capolavoro, L’arte della gioia, è stato pubblicato solo dopo la sua morte ed è diventato un libro continuamente amato e venduto.

Per molti giorni, e molta infanzia, essenzialmente, Goliarda vive con un nome ereditato da un fratellastro morto ed è un nome che non ha nessuno, di cui forse vergognarsi. E quindi si fa chiamare Iuzza.

Cresce in una famiglia affollata. Fin troppi fratellastri, amanti (del padre), ideali politici (soprattutto della madre), Maria Giudice, giornalista e sindacalista.

Ribelle come la sua stirpe, Goliarda vuole l’aria, stare in aria, a cavallo, con il fratellastro Carlo, «per padroneggiare quel niente che è più dell’oro fuso: l’assenza di gravità e di pensieri».

Goliarda/Iuzza si scopre scrittrice superati i dieci anni, durante i lunghi pomeriggi trascorsi nell’anticamera dello studio del padre, che è un avvocato penalista, “l’avvocato dei poveri”. Lì, fin da piccola, ascolta le storie dei familiari della gente disperata e sviluppa il suo dono. Ovvero la capacità di ottenere confessioni perché quando parla fa tornare la gente bambina.

La scrittrice vive senza recinti, si alleva da sola perché i genitori stanno cambiando il mondo e non possono fermarsi per lei. Diventa grande tra i tuffi, le letture esagerate per la sua età, i balli lunghi ore. A volte, dopo molto ballare, si chiude in sé e fa pensieri tristi, come il vulcano che vede sempre, l’Etna.

A 16 anni, Goliarda scappa dalla Sicilia con, nella testa, il dubbio che l’accompagna per tutta la vita e che riguarda la libidine di suo padre. Ha sedotto o meno le sorellastre? Sono le belle figlie che la madre ha avuto, anni prima con un altro amore, Carlo Civardi. Sono le sue sorelle.

Sapienza si lascia così alle spalle quella terra tragica, fatta di sudore e di desiderio che allude continuamente all’incesto e arriva a Roma.

Sceglie di fare l’attrice e così la voce le diventa calda e di ferro, per gli anni spesi a correggere il suo siciliano all’Accademia drammatica.

Una cosa che mi resterà sempre è anche l’aver capito quanto sia breve il tragitto fra Roma e Bolzano, o Roma e la Sicilia. La conquista delle grandi distanze: ricchezza immensa che devo alla Transiberiana. Il tratto già breve da Roma a Gaeta sarà per me veramente come prendere un autobus. Come avevo sempre pensato, il provincialismo - o una delle tante cause del provincialismo - nasce da questa non conoscenza delle grandi distanze.

Goliarda Sapienza in un appunto del dicembre 1978, in Scrittura dell’anima nuda, Einaudi

Lavora per il cinema, insegna e poi scrive. La sua scrittura è un intimo dire di sé che, come solo per le grandi scrittrici e i grandi scrittori, è un dire prestato all’universale. Scrive del prurito sessuale, dell’orgasmo, della violenza intera e atroce e lo fa per allargare la vita non per correggerla, come ha detto lo scrittore Domenico Scarpa.

Sapienza ha il temperamento della gente che osserva e non cerca il conflitto, non ingaggia competizioni sul niente. Spesso, però, si sente una fallita, e lo dice in modo tremante.

La morte infine verrà a pacificare questa mia insoluta lotta di non saper essere una che “vince”. Non oso guardare a fondo in questo terrore di competere, perché so che ci troverei la solita donnina impotente fuori dalle quattro mura di sempre. È così? O semplicemente la natura mi ha fatto non aggressiva e tremante come un coniglio? Anche nata uomo sarai stata in questo modo? Tutto è possibile. Ma sempre più purtroppo l’essere donna è una maledizione, anche in questo dubbio che porta sempre con sé. Dubbio che già solo l’essere donna contiene questa insicurezza e incapacità di affrontare la vita. In parole povere: alla donna è financo proibito di essere una vera fallita.

Goliarda Sapienza in un appunto dell’ottobre 1979, in Scrittura dell’anima nuda, Einaudi

Sapienza non desidera il successo, vuole un destino profondo. Gli amici sostengono, in modo forse un po’ retorico, che Goliarda non viva l’esistenza, ma sia l’esistenza. Riconoscono in lei quella vocazione, che assomiglia alla santità della madre (ci arriviamo sotto), ovvero la capacità di sacrificarsi per aderire alla visione ideale di sé.

Non ha rimpianti perché è una donna che si getta nell’impresa di non avere mai nostalgia. Ricorda tutte le cose, perché prima le ha consumate fino a sfibrarle.

Questa assenza di commozione mi dice che ho fatto bene a rubare, sempre, la mia parte di gioia a tutto e a tutti: eventi, persone, soldi o mancanza di soldi…

Goliarda Sapienza in un appunto del febbraio 1990, in Scrittura dell’anima nuda, Einaudi

Sempre in travagli finanziari, pignoramenti e avvisi di sfratto, Goliarda arriva a rubare gioielli a casa di un’amica ricca per pagare l’enorme debito degli affitti arretrati. La scoprono perché ha lasciato tracce dappertutto, forse di proposito. Finisce in carcere a Rebibbia e scrive un libro su quel mondo di emarginati dove non ci sono sapori.

Attraversa momenti di entusiasmi e spietati abbattimenti. Cerca di suicidarsi nel 1964, ma non vuole uccidersi, dice il suo analista, vuole solo cambiare. E così fa. Si stravolge per assomigliarsi ancora e ancora.

Maria

Maria Giudice, la madre, è l’«amore sublime» di Goliarda. La scrittrice viene devastata da questa donna che ha figli con uomini diversi, non si sposa e soprattutto combatte. Giornalista e sindacalista, Maria, con la sua «santità socialista», è per Sapienza un esempio incandescente che la seduce ma che, per contro, le rende faticosissimo imitarla: in altre parole, le rovina la vita.

Non dorme mai questa madre femminista che odia le femministe, è sempre insonne per «la troppa intelligenza», dice Goliarda. Vivono insieme a Roma e Maria, quando conosce il grande amore della figlia, Francesco Maselli, grida solo: «Mai! Non sposatevi mai: è un errore».

La madre muore nel 1953 e per Goliarda si annulla il tempo, le scrive decine e decine di versi poetici la notte del funerale. La scrittrice comincia a rielaborare, insieme alla donna che ha perso, anche ogni concetto di sé.

Sapienza abbandona così la Sapienza conosciuta fino a quel momento: smette di fare l’attrice, addio al cinema e addio alle cene con il gruppo di intellettuali impegnati che frequenta insieme a Citto. Dice a tutti: non mi disturbate, io devo scrivere. A volte, le torna in mente sua madre e la ricaccia giù, a terra. Anche con il piede, se serve.

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