
Vive una vita nel gelo, nella povertà della fame che impedisce di pensare, indossando quasi sempre lo stesso vestito marrone.
Eppure in lei tutto è incendio.
I suoi versi iniziano con le esclamazioni, mitizza ogni cosa, riesce a stare nella realtà solo se prima l’ha resa sogno dentro se stessa.
È sempre troppo, quando scrive e quando ama, e quindi trascorre il tempo attraversata da “piccole morti”, delusioni continue, il dolore di non essere mai comprensibile per nessuno.
Verrebbe da chiamarla poetessa estrema ma non si può. Ce lo impedisce sempre quello che di lei dice lo scrittore Iosif Brodskij «[…] è impossibile definirla un poeta degli estremi, non foss’altro perché l’estremo (deduttivo, emotivo, o linguistico) è soltanto il luogo in cui per lei comincia una poesia».
La letteratura per Marina Cvetaeva è principalmente la seduzione senza fine di un suono e l’ubbidienza cieca a quel compito sonoro che deve compiersi al prezzo sfibrante di ogni distruzione, esterna e interiore.
L’amore è questo: legna che si brucia in nome della scrittura.
Quando è bambina, Marina Cvetaeva vive in una casa che è infelice ma piena di musica. La mamma Marija è una pianista talentuosa e ha rinunciato all’uomo amato per sposarne un altro, il padre di Marina. Fin da piccola conosce il segreto materno; sa di questo errore del cuore. E quindi «dopo una madre così non mi restava che divenire poeta».
Nella sua infanzia colta e piena di cultura, Cvetaeva impara l’amore dai libri e quindi si assicura il disastro. Le sue mani di bambina sfogliano il poema di uno scrittore russo, Aleksandr Sergeevič Puškin. Dentro c’è la passione corrisposta male e in modo intermittente di due personaggi, Tatiana e Onegin. Così in Marina nasce l’idea del sentimento ostacolato, più forte se più lontano.
Passerà, anche per questo, la vita a scrivere lettere. Le invia a tutte le persone che ama dal suo spazio di esiliata: «... non riesco a vivere, e cioè a durare... nei giorni».
Serena Vitale, la studiosa che ha curato praticamente tutta la produzione della poetessa russa in italiano, dice che solo negli epistolari si arriva all’unica possibile biografia di Marina Cvetaeva.
E, infatti, nella raccolta di missive, Il paese dell’Anima, Marina si stringe a tutti e i suoi amanti li guarda a lungo perché sembrano non finire mai. Li descrive con attenzione perché è il suo modo di rispettarli, almeno quando sono solo memoria, quasi fosse una postuma fedeltà.
Per tutta la vita, rimane una donna quasi didattica nella sua esasperazione.
Posso portare avanti dieci rapporti (che orrore: ‘rapporti’), insieme e convincere ognuno e subito, dalla più profonda profondità, che è l’unico. Ma non tollero che mi si voltino le spalle, neanche appena appena. Mi fa MALE, capito? Io sono una creatura scorticata a nudo, e tutti voi portate la corazza.
Prova un piacere sensuale a dire “No” e a rifiutare la vita qualunque che abbiamo tutti. Quindi Marina cuoce le patate, fa a pezzi i mobili per scaldarsi, cerca di voler bene ai suoi figli, ma poi si strugge e dà appuntamenti a chiunque e non si presenta perché preferisce amare gli assenti, chiede agli altri il miracolo di essere compresa, fa domande complicate come questa:
Pavlik, che ne dite, quello che stiamo facendo adesso si può chiamare - pensiero?
Sonečka, Marina Cvetaeva, a cura di Serena Vitale, Adelphi
E poi si arrabbia con chi non la segue in questa sua battaglia per l’altezza e dice, a chi l’adora e si inginocchia, di fermarsi e andarsene «perché io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla».
Sergej
Marina sposa Sergej giovanissima e lo ama sempre, anche se lo tradisce con il fratello di lui e poi con infiniti altri; uomini, donne, ragazzi senza nome. Lui si arruola nell’Armata bianca. Hanno tre figli insieme: Alja, Irina e Georgij. E insieme perderanno la piccola Irina, di neanche tre anni, morta per denutrizione.
Sergej non c’è a lungo, ma quando c’è si appoggia a lei. Lui e Marina si scrivono lettere, si cercano e si amano come possono, nel tempo che hanno. Finiscono per morire quasi insieme, nel 1941. Lui viene fucilato per motivi politici, lei si uccide in agosto per la povertà, la tristezza e per la scrittura che era come persa per sempre.
L’amore coniugale, nella sua manchevolezza, ha sempre il grande pericolo della vicinanza più oltraggiosa, ovvero il pericolo della verità.
Sergej, nell’affollamento sentimentale imposto da Marina, è forse il primo e l’unico che la svela a se stessa.
Marina è una creatura di passioni. Adesso molto più di prima. Di prima della mia partenza. Gettarsi a capofitto nell’uragano è divenuto per lei necessità, aria della vita. Chi sia oggi la causa scatenante dell’uragano - non importa. Quasi sempre, tutto è costruito sull’autoinganno. Una persona viene inventata e comincia l’uragano.
Sergej Efron lettera al poeta Volosin, gennaio 1924 in L’amore è arco teso, Marina Cvetaeva a cura di Serena Vitale, Salani
Boris
Si incrociano nei salotti a malapena cinque volte. Nel 1922, Marina ha trent’anni, lui trentadue e iniziano a scriversi, quindi a desiderarsi.
Sono simili, aderiscono in un modo così assoluto da sembrare drammatico. Boris Pasternak chiede di vivere insieme, da qualche parte, subito. E lei lo ferma e gli ricorda che funzionano perché non si vedono.
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