Non è possibile vivere l’intensità in tutti i minuti. Lo sanno i vecchi, non lo accettano i giovani. Cesare Pavese attraversa i suoi anni con l’incandescenza di un ragazzo e quindi cerca di creare «una galleria di momenti inconfondibili e assoluti».
Anche quando cresce, resta l’uomo che non ricorda nulla se non stati interiori, colmi di una vita immaginata. Pavese sa, però, anche essere saggio nel rendere operoso il suo dolore: usa la dedizione del fare per pulirsi la testa e smettere di sentirsi «un ammasso flaccido di sensibilità malsane».
L’amore è la scoperta di qualcosa di molto serio e lontano, il desiderio di tutta la vita. L’arte è per Pavese la scommessa raggiungibile, il sentimento rimane sempre la sfida fuori portata.
Le donne che ama sono indipendenti, bellissime, libere. Non lo corrispondono praticamente mai. A tutte chiede di sposarlo ma riceve solo rifiuti netti. Ogni volta è una disperazione.
I suoi problemi di impotenza sessuale diventano l’archetipo di ogni ossessione esistenziale. Proprio lui, che vuole solo abbandonarsi, si spezza di continuo per la sofferenza di vedere su quei visi amati una «smorfia di dispetto» per via - lui ritiene - della performance mancata. Reagisce condannandosi a grottesche espressioni di misoginia e comincia a costruire il suo male, quel vizio assurdo che è il seme della sua fine.
Cesare compila note di diario dove alterna l’attesa spalancata a una scrittura livida e nauseante. Sono gli epigrammi per capire quello che gli succede e compongono Il Mestiere di vivere.
Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e rincomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura delle cose.
Nota di Cesare Pavese, 5 marzo 1947, in Il mestiere di vivere
E poi, poco dopo:
Ma come si fa al mondo a essere persone “per bene”, “rispettabili”, di “sani principi” a parlar di morale, a gridare dall’orgoglio, come si fa a ridere, ad amare quando ci sono delle puttane che si fan chiavare e tiran seghe e fanno pompini?
Nota di Cesare Pavese, senza data, in Il mestiere di vivere
Bisogna confessare che hai pensato e scritto molte banalità nel diarietto di questi mesi. Lo confesso ma cosa c’è di più banale che la morte.
Nota di Cesare Pavese, 25 febbraio 1938, Il mestiere di vivere
Il 22 giugno del 1950 Cesare Pavese è sul treno per Roma, dove vince il Premio Strega per il suo libro, La bella estate. Due mesi dopo si uccide in un albergo di Torino. Prima dell’irreparabile, prova a chiamare alcuni amici al telefono. Nessuna risposta. La città è deserta, tutti i suoi affetti sono in vacanza da qualche parte, in quell’agosto aridissimo di città. Dentro di sé Pavese è consapevole che non sarà mai amato nel modo in cui aspira.
Le sue donne non ci sono più. La vita con Tina, l’amore per Fernanda, l’adesione spirituale con Bianca, la passione con Connie sono estasi impossibili. Sa che «l'estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai».
Così finisce la giovinezza: quando si vede che l’ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo. Noi siamo stati dei primi. Allegro.
Appunto di Cesare Pavese, 5 dicembre 1937, Il mestiere di vivere
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Tina
Grazie all’amico Leone Ginzburg, Cesare Pavese conosce una donna con la voce indimenticabile, rauca e forte, che ha studiato matematica e vive da antifascista. Si chiama Tina Pizzardo.
Si innamora subito della libertà di questa insegnante che lavora dodici ore al giorno, annoverando una lezione privata dopo l’altra. Pavese le chiede di sposarlo e riceve il primo dei suoi rifiuti. Lei per quell’uomo insicuro prova solo un affetto che sconfina nell’ammirazione riservata agli artisti.
Pavese si prostra, fa di tutto, le permette persino di usare il suo indirizzo come recapito per gli scambi di lettere che la donna intrattiene con altri antifascisti.
Per amore di lei, lo scrittore viene arrestato dalla polizia politica quando si trova, in casa, una missiva compromettente. Lo mandano al confino, in esilio, in Calabria. E Cesare scrive a Tina da quei luoghi deserti:
Io passo le giornate (gli anni) in quello stato d’attesa che a casa provavo certi pomeriggi dalle due e mezzo alle tre. Sempre, come il primo giorno, mi sveglia al mattino la puntura della solitudine. Descriverti le mie ansie è impossibile. La mia pena non è quella scritta, sei tu; e lo sapeva bene chi ci ha così allontanati. Non scrivo tenerezze: il perché lo sappiamo; ma certo il mio ultimo ricordo umano è il 13 maggio.
Ti ringrazio di tutti i pensieri che hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non cessa mai.
Lettera di Cesare Pavese a Tina Pizzardo, 17 settembre 1935, in Vita attraverso le lettere, Einaudi
Quando Cesare Pavese torna a Torino, Tina sta già sposando un altro uomo.
Fernanda
Quello con Fernanda Pivano è un rapporto venato di paternalismo e sempre macchiato dalla sudditanza dell’inizio: lei è l’alunna, lui è il professore. Lo è per una breve supplenza in cui legge, con una voce da attore, Dante e Guinizzelli ai suoi liceali. La giovane studentessa ascolta e vorrebbe solo stare ferma, su quel banco, a sentire per ore l’uomo incredibile che sembra «un poco Hemingway».
Si incontrano anni dopo, nel 1938, quando Fernanda sta scrivendo la sua tesi di laurea su Melville. Comincia una relazione splendida ma già debole. Si amano con la testa, con il corpo, come al solito, in modo più meditato e faticoso. I loro scambi epistolari sono commoventi e ormai famosi. Pavese le scrive:
Ci sono anche altre lettere bellissime, come questa.
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